Non basta sensibilizzare i consumatori: per favorire il recupero del cibo sono necessarie misure e iniziative ad hoc per tutti i player di settore, dalla distribuzione alla ristorazione.
Di fatto, il tema delle eccedenze alimentari riguarda un vero e proprio trend di scenario caratterizzato da una spiccata attualità per il marcato impatto generato proprio dagli sprechi di cibo in ambito economico, sociale e ambientale. Per eccedenze alimentari si intendono quei prodotti alimentari, agricoli e agroalimentari che restano invenduti o comunque non distribuiti a causa di una carenza della domanda, mentre lo spreco alimentare riguarda tutti i prodotti alimentari scartati dalla catena agroalimentare per ragioni commerciali o per il loro approssimarsi alla data di scadenza, pur essendo ancora commestibili e, quindi, destinabili al regolare consumo. Di recente, a evidenziare i tratti più salienti dello scenario in essere è stato il rapporto finale della prima annualità dell’ O-ersa (Osservatorio sulle eccedenze, recuperi e sprechi alimentari), voluto dal tavolo di coordinamento per la lotta agli sprechi e l’assistenza alimentare presieduto dal Ministero delle Politiche agricole, alimentari, forestali e del turismo e collegato al Crea (Centro di ricerca alimenti e nutrizione). Il report è il risultato di un progetto di ricerca e sviluppo realizzato dal Crea in collaborazione con Ref ricerche nel corso del 2018 per avviare la formazione, nel nostro Paese, di un osservatorio ad hoc preposto a raccogliere, aggregare e diffondere dati, informazioni e buone pratiche sulle eccedenze che si formano lungo la filiera agroalimentare, sui recuperi a fine di consumo umano e in merito al food waste. I dati relativi alla nostra nazione, pur evidenziando la presenza di spreco, si rivelano comunque migliori rispetto agli altri Paesi europei: nel dettaglio, il report sottolinea che in Italia, su base settimanale, si sprecano in media 370 g di cibo a famiglia. Gli alimenti più sprecati dai nostri connazionali sono quelli freschi: si tratta di frutta, verdura, pane, latte e yogurt. Il 77% delle famiglie interpellate ha dichiarato di aver gettato del cibo durante la settimana precedente l’intervista. I nuclei familiari dal comportamento più virtuoso vivono, in prevalenza, nelle regioni meridionali e nelle isole. In particolare, la ricerca rivela che l’atteggiamento antispreco delle famiglie italiane cresce sia con l’aumentare dell’età anagrafica del responsabile degli acquisti sia con il diminuire del reddito disponibile. Per quanto riguarda la prevenzione dello spreco, emerge che il 75% degli intervistati pianifica gli acquisti, ma appena il 42% decide anticipatamente il menu della settimana. Inoltre, meno del 5% non è solito conservare gli avanzi e non finisce di consumare il cibo nel piatto. Sul versante della percezione del food waste, il report ne sottolinea l’impatto economico (70%), sociale (59%) e ambientale (55%). Oltre agli operatori del comparto distributivo, il tema attinente allo spreco e alle eccedenze alimentari richiama la necessità di focalizzare l’attenzione verso il mondo dei consumatori finali. In tale ambito, la modellizzazione teorica ponderata sui consumatori, secondo gli autori della survey, permetterà di identificare i canali più utili per le politiche di prevenzione e, al tempo stesso, potrà indicare gli aspetti sui quali intervenire per correggere i fattori di contesto in cui i comportamenti rivolti allo spreco si manifestano in modo da accompagnare i consumatori stessi verso abitudini più sostenibili e di contenimento degli sprechi, anche attraverso l’attivazione di un contesto ad hoc in grado di porre in atto politiche di nudging come, per esempio, la riduzione della dimensione delle stoviglie. Ma, in primis, a essere direttamente coinvolti nel necessario ampliamento di buone pratiche rivolte alla riduzione del food waste sono gli operatori della distribuzione al dettaglio, di quella all’ingrosso, della ristorazione e, infine, le organizzazioni no profit. La distribuzione all’ingrosso svolge un ruolo importante nel contrastare la formazione delle eccedenze e degli sprechi alimentari, dal momento che commercializza prodotti freschi a elevata deperibilità e che opera in qualità di piattaforma logistica che collega tutti gli attori della filiera. I mercati ortofrutticoli sono impegnati su diversi versanti: per i produttori, che possono trarre vantaggio da una forma organizzata della domanda, per la grande e la piccola distribuzione, che si approvvigiona alle migliori condizioni offerte dal mercato, beneficiando di significative economie di scala e, infine, per i consumatori finali che, nell’ambito del loro processo di acquisto, usufruiscono della possibilità di scegliere fra un ampio range di prodotti diversificati, controllati e di qualità. L’approccio logistico degli operatori all’ingrosso ha fatto emergere dalle interviste una marcata attenzione rivolta all’innovazione come principale strumento antispreco: in merito, sia gli investimenti di tipo infrastrutturale sia lo sviluppo tecnologico (che va, per esempio, dalle gallerie di refrigerazione fino alla copertura delle piattaforme per arrivare alle più avanzate sperimentazioni di tecnologia smart o intelligente) vengono considerati come fattori in grado di contrastare il fenomeno. Un ulteriore aspetto emergente dal report sul versante dei distributori all’ingrosso rivela come proprio tali player auspichino una regia che permetta sia di integrare sia di coordinare la logistica dell’ingrosso con quella dei ritiri e del recupero: quest’ultima, infatti, viene considerata troppo parcellizzata per realizzare un’efficace azione di sistema. Passando al settore della distribuzione al dettaglio, passaggio cruciale della filiera agroalimentare, il duplice contributo di sensibilizzazione e di orientamento del comportamento d’acquisto dei nuclei familiari, considerato anche in termini di prevenzione, è di fondamentale importanza anche per le attività di O-ersa. In particolare, è emerso come la distribuzione commerciale, congiuntamente alla trasformazione industriale, sia la fase della filiera che meglio si è attrezzata per predisporre azioni concrete rivolte al recupero dell’invenduto a favore delle situazioni di disagio. Tuttavia, emerge una criticità consistente nella mancanza di un disegno organico di sistema: un maggiore coordinamento, infatti, potrebbe garantire di includere all’interno del processo dei recuperi non soltanto la grande distribuzione alimentare, specialmente insediata nei centri più densamente popolati, ma anche quella di più piccole dimensioni che, invece, risulta penalizzata per le superfici stesse dei suoi punti di vendita e per una localizzazione concentrata, in prevalenza, in aree interne, di montagna e rurali. Inoltre, al comparto della distribuzione al dettaglio va attribuita una tra le più avanzate esperienze di misurazione sul campo realizzata in Italia, per ragioni di ordine metodologico e per l’accuratezza delle quantificazioni proposte, sia per la consapevolezza dei limiti dell’esercizio connaturati allo stato delle conoscenze sia per la capacità di visione relativa agli sviluppi potenziali del lavoro. Per quanto riguarda il settore della ristorazione, lo scenario presenta caratteristiche non marginali: le dinamiche della ristorazione collettiva (scuole, mense, ospedali e via dicendo) e di quella commerciale (bar, ristoranti e altri esercizi al dettaglio) risultano parecchio differenti. Nella ristorazione collettiva, i margini di intervento sono considerati piuttosto contenuti, dato che gli sprechi alimentari provengono, in prevalenza, da un sovradimensionamento delle porzioni che vengono somministrate nelle mense pubbliche e private. Soggette a rigorose regole sanitarie, le eccedenze avviabili al recupero rappresentano soltanto una quota minima dei volumi totali: in questo senso, una revisione dei capitolati di gara e dei contratti di fornitura del servizio, coerentemente con le linee guida nutrizionali rivolte a una sana e corretta alimentazione, su cui il Crea ha una expertise specifica, potrebbe agevolare il contenimento degli sprechi. Per quanto attiene alla ristorazione commerciale, secondo il report, vale il già citato principio per le imprese della trasformazione, poiché il contenimento degli sprechi, di per sé, è autoincentivante. In generale, e comune a entrambe le realtà della ristorazione, emerge l’auspicio di un intervento pubblico che, attraverso misure di defiscalizzazione ad hoc da prevedere nell’ambito del Piano industria 4.0, possa sostenere l’acquisto di strumenti e di macchinari in grado di rinviare la scadenza degli alimenti deperibili pronti per essere consumati, quindi favorendone effettivamente il recupero. Le interviste effettuate presso gli enti no profit, le organizzazione caritative e l’Anci hanno fatto emergere ulteriori spunti di riflessione in merito al funzionamento dell’ultima fase del ciclo, cioè quella che è organizzata per fare in modo che le eccedenze alimentari, da un lato, vengano recuperate a favore dei soggetti indigenti e, dall’altro, non si trasformino in spreco. Va detto che si tratta di un quadro frammentato e che presenta ampi margini di miglioramento, dato che gli enti no profit tendono a operare su base essenzialmente volontaristica, in modo non coordinato e, in genere, in ambito locale, con l’unica eccezione del Banco alimentare che, nel corso degli anni, si è dotato di una rete logistica strutturata a livello nazionale. Oltre a ciò, emerge un’opinione comune che ritiene che sia proprio l’evoluzione normativa di questi ultimi anni a poter contribuire allo sviluppo di una maggiore sensibilità di filiera. Nello scenario contingente, il crescente interesse incentrato sul tema delle eccedenze e degli sprechi ha generato il proliferare consistente di piccole iniziative di contrasto al food waste che, a sua volta, non fa che rendere necessaria la definizione sia di linee guida precise sia degli obblighi professionali attribuibili a tutti i soggetti che, a diversi livelli, si occupano di recupero e, quindi, di redistribuzione.
Fonte: Largo Consumo