Nel 2020 le imprese del comparto della ristorazione collettiva hanno visto un calo dei profitti del 40% diviso fra mense scolastiche e aziendali con un -63% e -43%, per poi avere una ripresa positiva nelle scuole per l’anno successivo, mentre la ristorazione collettiva soffre a causa dello smartworking (perso il 20% del valore dal 2019).
Allo stesso tempo, le stime prevedono una spesa di 220 milioni di euro in più per elettricità e 126 milioni di euro più per il gas per le imprese del settore: costi che metteranno in ginocchio le aziende.
Sono dati di un’indagine dell’Oricon emersi dall’ultimo incontro tenuto a Roma dagli Stati Generali della ristorazione collettiva di Angem, alla presenza dell‘Associazione Nazionale della Ristorazione Collettiva e dei Servizi nella famiglia (Fipe), riuniti per discutere della crisi del settore, dato il forte impatto del rincaro delle materie prime alimentari e dell’energia.
“L’impennata dei prezzi delle materie prime e dei costi dell’energia – ha detto Lino Stoppani, il presidente di Fipe – è un problema per le imprese della ristorazione collettiva, che operano in costanza di prezzi fissi. Le stazioni appaltanti della Pa pretendono sempre qualcosa di più sul fronte contrattuale e d’altra parte fissano termini di gara sempre più complicati imponendo prezzi al ribasso”. Il presidente di Fipe ha chiesto che da parte delle istituzioni ci sia una maggiore considerazione per un settore che unisce aspetto economico e sociale. Con Angem staremo sui problemi: innanzitutto sulla possibilità di revisione automatica dei prezzi sugli appalti e il tema della liquidità delle imprese”.
Il settore comprende 15.000 aziende, 110 mila addetti e un giro d’affari da 6,4 miliardi l’anno.
“Nel Dl aiuti ter e quater la ristorazione collettiva non è entrata e quindi c’è da sperare nella Legge di Bilancio – ha aggiunto Carlo Scarsciotti, presidente di Angem. “Occorre stabilire dei criteri uniformi in relazione ai quali le aziende della ristorazione collettiva possono richiedere l’adeguamento dei prezzi, proprio come avviene negli appalti per i lavori, valorizzando e ridando fiato alle migliaia di piccole, medie e grandi aziende del comparto”. Secondo Scarsciotti, sono due i principali problemi che lamenta il sistema: la scarsa e non uniforme applicazione della norma del Sostegni ter che impone alle stazioni appaltanti di inserire all’interno dei bandi di gara apposite clausole per la revisione dei prezzi. E poi l’impossibilità, per molte imprese, di rispettare i vincoli imposti dai Criteri Ambientali Minimi, che sanciscono l’obbligo di portare in tavola una percentuale di prodotti certificati Bio.
“Prodotti che oggi però sono difficili da reperire, o sono molto onerosi. Queste distorsioni – ha sottolineato Scarsciotti – di fatto costituiscono una violazione del principio delle uguali regole in uno stesso mercato. Le imprese che hanno siglato i contratti pre-pandemia, quando non era previsto alcun adeguamento dei prezzi, si trovano ora a lavorare in perdita: non ricordo altri esempi di servizi pubblici essenziali in appalto che operino a prezzi fissi malgrado la fiammata inflazionistica. Chi lo ha sottoscritto dopo, invece, vive nel limbo costituito dalla discrezionalità lasciata ad ogni stazione appaltante. In pratica, abbiamo decine di migliaia di committenti in tutta Italia, ciascuno dei quali è libero di dettare le condizioni che preferisce in merito all’adeguamento dei prezzi, in ragione del boom dell’inflazione e dei costi energetici. Tutto questo è inaccettabile”.