Qualità, bontà e benessere. Ecco tre elementi portanti dell’alimentazione moderna sia che si tratti di ristorazione commerciale sia per quanto concerne la collettiva. Elementi che accompagnano i cibi che consumiamo quotidianamente sotto forma di etichette, slogan, e pubblicità che, però, hanno confini ben delineati dal quadro normativo di riferimento. Si tratta di comunicazioni, importanti dal punto di vista del marketing, e per le quali il diritto europeo ha predisposto una cornice giuridica-regolare specifica: it Regolamento (CE) n. 1924/2006 relativo alle indicazioni nutrizionali e sulle salute fornite sui prodotti alimentari (ed. Regolamento Claims) e il connesso Regolamento (UÈ) n. 432/2012 relativo alla compilazione di un elenco di indicazioni sulla salute consentite sui prodotti alimentari, diverse da quelle facenti riferimento alla riduzione dei rischi di malattia e allo sviluppo e alla salute dei bambini. Nonostante il Regolamento Claims sia chiaro nel definire il suo campo di applicazione [“le indicazioni nutrizionali e sulla salute nelle comunicazioni commerciali, sia nell’etichettatura sia nella presentazione o nella pubblicità dei prodotti alimentari forniti al consumatore finale”), alcune perplessità applicative sorgono con riferimento alla ristorazione collettiva, o meglio alle comunicazioni fornite in relazione ad alimenti (si pensi a un sorbetto light) e bevande (tisana digestiva) manipolati e/o commercializzati da un operatore del settore della ristorazione collettiva. Diciamo subito che si tratta di un problema che può dirsi secondario. Non così più oggi. Non a caso, il Regolamento Claims precisa che esso si applica anche a tutte quelle comunicazioni commerciali, inclusa l’etichettatura, presentazione, pubblicità, siti web, social network, rivolte al consumatore finale. Più precisamente, il regolamento menziona, predisponendo disposizioni ad hoc, il caso di alimenti non preconfezionati, compresi i prodotti freschi, quali pane, frutta o verdura, destinati alla vendita al consumatore finale oppure destinati a servizi di ristorazione di collettività, e il caso di alimenti confezionati sul luogo di vendita su richiesta dell’acquirente o preconfezionati ai fini della vendita immediata (il famigerato pre-incarto). Si pone così legittimamente il dubbio se il cibo somministrato in sede di ristorazione collettiva rientri o meno nella nozione di “alimenti non preconfezionati, destinati alla vendita al consumatore finale”. La risposta affermativa sembra supportata dal dato testuale ora richiamato e, inoltre, coerente con il quadro più generale in tema di informazioni sui prodotti alimentari e, infine, funzionale al perseguimento degli obbiettivi del Regolamento Claims che, lo si ricordi, sono “l’efficace funzionamento del mercato interno e al tempo stesso un elevato livello di tutela dei consumatori”. È interessante notare, comunque, che per i casi di alimenti non preconfezionati ora richiamati, la armonizzazione europea si accompagna a quella nazionale; in ciò un parallelo con il Regolamento (EU) n. 1169/2011 che, come noto, per i prodotti alimentari “non prelibati” rinvia alle disposizioni nazionali, oggi contenute nel decreto legislativo n. 231/2017 (art. 17 e ss.). Ne deriva che, con le dovute cautele, le “indicazioni nutrizionali” (qualunque indicazione che affermi, suggerisca o sottintenda che un alimento abbia particolari proprietà nutrizionali benefiche, dovute a contenuto dì energia o sostanze nutritive o di altro tipo che contiene/non contiene) e le “indicazioni sulla salute” (qualunque indicazione che affermi, suggerisca o sottintenda l’esistenza di un rapporto tra un categoria di alimenti, un alimento o uno dei suoi componenti e la salute) dovrebbero essere impiegate conformemente ai requisiti previsti dal citato Regolamento Claims. L’attenzione alla compliance si consiglia anche in ragione del quadro sanzionatorio specifico (sanzioni amministrative pecuniarie, salvo che il fatto costituisca reato) di cui al decreto legislativo n. 27/2017. In questa prospettiva, assume rilievo la recente comunicazione della Commissione sulla dicitura “detox”, ormai entrata nel linguaggio comune. Si tratta chiaramente di una indicazione rientrante nel campo di applicazione del Reg. (CE) n. 1924/2006, quale indicazione sulla salute. Pertanto il suo impiego legittimo dipenderebbe dall’ottenimento di una autorizzazione ai sensi del regolamento. La Commissione Europea ha escluso un intervento regolamento di dettaglio su questo claim, come nel caso della dicitura “senza glutine” (Reg. (CE) n. 828/2014). Peraltro, l’autorizzazione del claim risulta necessaria per la spendita di una indicazione salutistica di questo tipo in relazione “agli alimenti”. Si tratta però di una strada oltremodo difficoltosa anche considerando i precedenti tentativi di autorizzazione che sono naufragati nel corso delia valutazione di EFSA. La gran parte di queste applicazioni infatti è stata rigettata per mancanza o insufficienza di prove scientifiche comprovanti l’effetto fisiologico benefico che si intendeva vantare. Ad esempio, la richiesta di autorizzazione di un claim del tipo “supporta la funzione di disintossicazione” e “può aiutare il processo di disintossicazione” con riferimento al tanto discusso Green coffe (Coffea arabica L.). Concludendo, la ristorazione collettiva ha assunto un ruolo rilevante nell’ambito della alimentazione quotidiana. Anche nella prospettiva della lotta alle Non Comunicabile Diseases, il legislatore, lento perde, estende oneri informativi, tipici dell’industria manofattura, alle attività di somministrazione di alimenti in ambito di ristorazione collettiva. Di ciò è bene essere avvertiti posto che l’aderenza a principi nutrizionali generalmente riconosciuti e a stili di vita consoni costituiscono obiettivo che il legislatore intende perseguile anche per il tramite del concorso, volente o nolente, degli operatori economici rilevanti.
Fonte: Ristorando