PeopleforPlanet – Inquinano in modi non del tutto noti, e – non da ultimo – sono un grave spreco di denaro pubblico. Perché fare lo sforzo di dotare scuole e ospedali di una lavastoviglie, e inserire negli appalti pubblici la clausola di servire le pietanze delle mense di scuole e ospedali nella ceramica, vetro e acciaio?
C’è un enorme risparmio di denaro pubblico. Marco Storchi, Direttore Servizi alla persona del Policlinico S. Orsola di Bologna, che ha introdotto i piatti in ceramica nel 2015, ha calcolato che solo riorganizzare la mensa, eliminando i piatti di plastica, e reintroducendo la ceramica e la lavastoviglie, si è ottenuto un risparmio che varia dai 60 ai 70mila euro in un anno. Solo per un ospedale.
Inoltre, con la ceramica c’è la sicurezza di un materiale sano, che non rilascia sostanze chimiche con le alte temperature; c’è la certezza di ridurre l’inquinamento da microplastiche, un dramma che ha ulteriori risvolti negativi per la salute pubblica. E poi si limita lo spreco di materie prime, la produzione e le relative emissioni di carta e plastica, il loro trasporto, mentre si riduce ovviamente anche la produzione e lo smaltimento di rifiuti.
Ci sono poi altri aspetti da non sottovalutare, che potremmo chiamare psicologici ed educativi: nelle scuole montessoriane – paradossalmente più diffuse all’estero che in Italia– il piatto in ceramica e il bicchiere di vetro si usano per responsabilizzare il bambino, aiutarlo a conoscere e capire il mondo che lo circonda sin dall’asilo nido, accrescere la sua autostima e renderlo autonomo. In più, usare un piatto lavabile educa le prossime generazioni al riuso, al rispetto dell’ambiente, allontanandole dalla cultura dell’usa-e-getta. Negli ospedali, il piatto in ceramica è una coccola, dà una sensazione di “casa” e di “bello” al paziente.
Eppure, ad oggi, nidi, primarie, elementari e ospedali hanno quasi sempre (pochissime le eccezioni, tipo Parma e altre piccole realtà) piatti e posate monouso, a volte in materiali compostabili, più spesso in plastica.
Serve un altro motivo per preferire la ceramica? E’ già successo – ed è successo a Roma – che piatti e bicchieri di plastica distribuiti nelle mense scolastiche fossero di qualità talmente scadente da sciogliersi completamente davanti agli occhi dei bambini.
Mentre si attende che tutto questo venga valutato a livello centrale – come ha fatto la Francia, che ha bandito l’usa e getta entro il 2020 – o imposto dall’alto anche a noi (L’Unione europea sta pensando di dimezzare entro il 2030 il consumo di plastica usa e getta) piccoli passi avanti li facciamo grazie ad amministrazioni e fornitori virtuosi. Tra gli ultimi c’è Poggibonsi, che si prepara a diffondere ovunque l’uso dei piatti di ceramica e bicchieri di vetro. La novità è stata introdotta nel servizio di mensa scolastica nell’ambito degli investimenti a cura di Cir Food, come previsto nel capitolato di gara. La spesa è ridicola rispetto ai vantaggi e comprende anche il rinnovo delle cucine del Comune (in totale 260mila euro) che saranno ripagati in breve tempo dal risparmio sull’acquisto di usa e getta (e comunque i costi sono per la ditta appaltante, come da accordi col Comune).
E poi c’è chi si è rifiutato di cambiare, di assecondare la “tentazione” di semplificare le cose, ma solo all’apparenza. Il Comune di Parma ha sempre mantenuto la “vecchia” tradizione delle mense scolastiche con piatti in ceramica, e oggi ne gode le conseguenze, anche di immagine. L’assessora Ines Seletti, alla Scuola e al Servizio di Integrazione Scolastica, è recentemente stata intervistata da Rai3, per un servizio che – come il nostro – ha potuto sottolineare l’attenzione ambientalista della giunta pizzarottiana, che non solo è uno dei più grandi Comuni a scegliere il riuso nelle mense scolastiche, allargandola agli ospedali, ma vi ha anche portato l’acqua in caraffa. Qualcosa che, di nuovo, permette ampi risparmi economici e ambientali e che è anche preferibile per la salute. L’acqua del rubinetto è generalmente più controllata di quella in bottiglia, accusata recentemente di nascondere microplastiche al suo interno. “Abbiamo assunto allo scopo una tecnologa – mi spiega l’assessora Seletti – che decide i tempi di sedimentazione dell’acqua e i controlli necessari, che mette in atto l’Asl come minimo una volta al mese”. Controlli serratissimi: ad esempio a Milano, dove pure si serve acqua in caraffa nelle scuole (ma piatti, posate e bicchieri sono interamente monouso), i controlli non sono previsti dall’amministrazione comunale. E’ la ditta che fornisce i pasti – Milano Ristorazione – a controllare sua sponte, ma solo una, due volte l’anno, l’acqua che eroga ai bambini.
“Abbiamo a Parma un procedimento preciso – mi spiega Annalisa Fortini, la tecnologa comunale, esperta in scienze e tecnologie alimentari. L’acqua viene raccolta dal rubinetto dopo averla lasciata scorrere per almeno 5 minuti. Poi deve evaporare almeno 15 minuti, meglio mezz’ora, che è il tempo di evaporazione del cloro. Il procedimento segue il capitolato d’appalto, e comprende anche regole come quella di svitare il frangiflutto, il piccolo filtro all’estremità del rubinetto, e lavarlo ogni giorno, perché è lì che più spesso si annidano le impurità, il calcare e i batteri. Tra le altre norme, bisogna far scorrere di più l’acqua dopo la chiusura delle scuole, controllarla ogni mese, su ogni scuola, con l’analisi di circa 15 parametri fisici, chimici e microbiologi. Se ci sono anomalie, viene sospesa l’erogazione in caraffa, si contatta la asl e si rifanno le analisi, si incrociano i risultati e si capisce se il problema è a valle o a monte. Questo in teoria, finora non ne abbiamo mai avuta la necessità, viste le regole preventive”.
Tornando alla questione piatti in ceramica, Fortini ci conferma che la soluzione è migliore anche dal punto di vista della salute. “C’è un range di temperature all’interno del quale usare piatti e posate di plastica, ammesso che si tratti di materiale a norma, non crea problemi di contaminazione del cibo. Al di fuori di queste temperature esiste un rischio che la plastica rilasci sostanze dannose“.
Oltre alle scuole, Parma ha portato piatti e posate di ceramica anche nel proprio ospedale. Ma ci sono ancora altri programmi a favore dell’ambiente e dell’economia. “Ad esempio abbiamo programmi per insegnare alle classi un uso corretto del cibo e l’abitudine a non sprecare”, ci dice Seletti. Caso più unico che raro, a Parma poi i bambini si servono da soli: decidono la quantità in base all’appetito, imparano l’autogestione ai fini anti-spreco e imparano come si impiatta con cura. “Inoltre il cibo in avanzo è dato alle mense dei poveri e all’emporio solidale, che potremmo chiamare il supermercato per non abbienti. Abbiamo programmi in partenza a settembre per imparare poi cosa è bene mangiare per stare in salute, mentre un equipe di genitori – che seguono un corso di preparazione apposito – fa sopralluoghi nelle mense per valutare scarti e freschezza del cibo. Il menù è totalmente bilanciato tra cereali e proteine vegetali. Per questo la qualità del nostro menù scolastico e ospedaliero ha un’ottima posizione nei ranking nazionali. Abbiamo un bando molto restrittivo, che prevede solo biologico e km zero, e siamo contro la logica di altre città che valutano solo la spesa economica quando scelgono la ditta che produce e distribuisce il cibo nelle mense. I nostri pasti ci costano 6.90 euro l’uno: una cifra che parla da sola rispetto a una media per le altre città che punta al ribasso e si attesta sui 3.5 euro a pasto mediamente”.
Qualità, e qualità che ripaga, nel breve e nel lungo periodo. L’Europa vuole ridurre entro il 2030 il monouso perché ogni anno sono 25 milioni le tonnellate di rifiuti che produciamo, solo noi europei, mentre ne ricicliamo appena il 30% (14% a livello mondiale). La Francia ha già organizzato il bando dell’usa-e.getta, il Regno Unito ha posto una tassa sui bicchieri monouso per disincentivarli, e si riscoprono servizi come il lattaio a domicilio che consegna in vetro e ritira i vuoti a perdere. Sistema che la Germania da tempo usa anche per festival e sagre: niente monouso ma vuoto a rendere.
“Si sa che le plastiche possono essere interferenti endocrini – ha spiegato a Rai3 Maurizio Simmaco, docente di Biologia Molecolare all’Università Sapienza di Roma, parlando proprio del caso-Parma – possono liberare sostanze che alterano i segnali alle cellule e il funzionamento di alcuni enzimi. Inoltre le plastiche disperse nell’ambiente si diffondono come microplastiche, inquinano le falde entrano nella catena alimentare e si accumulano nell’organismo. Non si conosce del tutto il loro effetto, ma è ben noto per esempio il danno alla fertilità maschile e femminile. Ci sono tanti studi in merito, e tutti arrivano alla stessa conclusione: è difficile capire quanta plastica viene rilasciata dai contenitori in plastica agli alimenti che contengono: non sappiamo quanto fa male, ma per un principio di cautela conviene considerarla qualcosa a rischio”.
Fonte: PeopleforPlanet