Corriere della Sera, 04/05/208 – Stesso caffelatte la mattina, stessa pasta col sugo a pranzo, stessa pastina in brodo la sera… Come è possibile che nella stessa regione il menu possa costare 7 euro in un ospedale e 18 in un altro distante meno di venti chilometri in linea d’aria? È quello che sta cercando di capire l’Autorità nazionale anticorruzione di Raffaele Cantone. Era il lontano 24 luglio 1974 quando il Corriere, a proposito delle «nuove proposte per le tariffe di acqua e gas» parlò per la prima volta di un «nuovo metodo» basato sui «costi standard». Eppure 44 anni non sono bastati a ridurre gli squilibri, a volte vergognosi, tra questa e quella amministrazione sulle stesse identiche spese.
Sui trasporti locali, ad esempio, il comunista Lucio Libertini sollevò il tema il 9 dicembre ’82. Ma l’annuncio che «si è definitivamente raggiunta l’intesa sul modello di calcolo dei costi standard» (dopo una trattativa «che ha visto coinvolti il ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti e la Conferenza Stato-Regioni») è del 22 febbraio scorso. Evviva.
Ogni ospedale, ogni Asl, ogni entità locale ha raccolto i dati, per anni, in un totale disordine anarchico. Disordine funzionale spesso alle furbizie. Vedi il caso celebre delle siringhe per l’insulina emerso un paio di anni fa da un report dell’Autorità di vigilanza sui contratti pubblici per il ministero della Salute: «Negli ospedali veneti, costa 4 centesimi e nel Sud lievita a 24». Per non dire del «trattamento per tumori alla prostata con terapia conformazionale statica a sei campi» pagato anni fa alla clinica Santa Teresa di Bagheria 136 mila euro e a Milano 17 volte di meno: 8.093. Proprio grazie al caos che impediva i confronti.
La stessa tabella che pubblichiamo sui costi di una «giornata alimentare» nelle diverse regioni, tratta dal dossier «Efficienza dei contratti pubblici e sviluppo di indicatori di rischio corruttivo» dell’Anac, ha richiesto un lavoraccio. E dice che il «prezzo efficiente» di riferimento per la giornata di un ricoverato (colazione, pranzo e cena) è di 11,74 euro.
Una cifra che su grandi numeri appare «congrua» anche a chi, come gli chef stellati Davide Oldani o Niko Romito, ha avviato da anni progetti per la Mensa dei Poveri di Milano o l’ospedale Cristo re di Roma. Il guaio, come dicevamo, è che intorno a questa cifra (anche a causa di mille varianti: cibo freddo, cibo caldo, cucinato in reparto, portato da fuori…) i numeri ballano da luogo a luogo. Senza alcun criterio generale.
«Il problema è come vengono fatti i capitolati», spiega Raffaele Cantone. «Dietro questi sbalzi può esserci una questione patologica. E la ragione dei costi standard è evitare questa patologia. Qui la mano destra non sa cosa fa la sinistra. Ciascuno si muove senza porsi la domanda su cosa accada nelle realtà analoghe. Magari in astratto queste differenze una ragione ce l’hanno. Ma se pure ce l’avessero sarebbe una ragione non equa. Non è solo una questione di risparmio: occorre evitare i bandi fatti su misura».
Se alcune regioni riescono a stare mediamente al di sotto di quegli 11,74 euro individuati dall’Anac (la Val d’Aosta è a 11,57, la Calabria 11,52, l’Umbria 11,42, le Marche 10,74…), le altre stanno al di sopra. Dell’11,7 il Veneto, del 14,2 il Piemonte, del 14,4% la Campania. Senza alcun criterio, troppo spesso, rispetto al costo della vita in quell’area. Come nel caso del policlinico universitario «Mater Domini» di Catanzaro dove il costo standard per una giornata alimentare dei ricoverati (non a caso poi avviato a una revisione del contratto) svetta a 18 euro e stacca nettamente i 12,33 medi per tre pasti giornalieri in Lombardia, una delle regioni più care. Tanto che la stessa azienda ospedaliera calabrese domina a 155,2 punti (record assoluto) rispetto al costo standard nazionale pari a 100.
E come può l’Istituto per i Tumori «Giovanni Paolo II» di Bari arrampicarsi fino a 18,50 euro per ogni menù giornaliero? Che si tratti di strutture di eccellenza, come spesso sottolineano, non c’entra: non parliamo di macchinari sofisticati, farmaci di eccellenza o chirurghi strappati a qualche ospedale olandese o americano ma di stracchino, pane, purè, scaloppine…
Per dare un’idea: se fossero in linea coi costi standard dei pasti fissati come riferimento il polo oncologico barese risparmierebbe secondo l’Anac 152 mila euro e il policlinico catanzarese 236 mila. I soliti meridionali spreconi? Sì e no. Le sfasature esistono anche al Nord. Il dossier segnala ad esempio il caso dell’Ulss9 di Treviso legata a un contratto sui singoli pasti giornalieri di 16,53 euro l’uno. Tanti: coi riferimenti standard la Regione avrebbe risparmiato ogni anno due milioni e 339mila euro. Uno squilibrio netto evidenziato del resto dagli studi della stessa regione che ha recentemente provveduto a rivedere vari contratti. Gli squilibri, però, restano. Rispetto al prezzo di riferimento di 11,64 euro per una giornata di vitto di un ricoverato il polo ospedaliero dell’Ulss4 ne spende 15,90. Il 36,5% in più. Oltre un terzo in più rispetto al costo ritenuto equo anche dai due famosi chef di cui dicevamo.
Ma è sotto il Vesuvio, come dicevamo, che emergono le contraddizioni più insensate. Costo alimentare di un paziente dell’Asl Napoli 3 Sud (Torre del Greco, Torre Annunziata, Ercolano…) euro 7,10 al giorno. Di un ricoverato all’Azienda Ospedaliera dei Colli (ospedale Monaldi, Cto, Cotugno…) euro 17,77. Questione di mazzette? Mah… «Non è questo il punto», sospira Cantone: «Molti di questi squilibri non dipendono da patologie corruttive ma da scelte diverse, che però sono assolutamente inique. Uno dei due prezzi, 7 euro di qua e 18 di dà, è certamente sbagliato. E ci sono pazienti che hanno avuto certamente un trattamento ingiusto.
Se ammettiamo per ipotesi che il prezzo giusto sia davvero di quasi 18 euro, il ricoverato che ha avuto un menù da 7 euro è stato trattato come un animale. Se invece fosse il contrario sarebbe evidente un esborso assurdo caricato sull’erario. Per questo allineare i costi a un certo standard non è solo un risparmio economico. Ma una questione di giustizia».
Ma quanto incidono scostamenti di pochi euro? Lasciamo rispondere al dossier Anac: per il solo vitto dei ricoverati almeno un’ottantina di milioni l’anno. Ma in generale «sulla base di stime indicative, laddove i contratti che presentano prezzi superiori a quelli di riferimento si allineassero a questi ultimi», i risparmi potenziali su farmaci, servizi di pulizia, ristorazione, lavanderia, risme di carta eccetera, salirebbero «a circa 700 milioni di euro annui». Pari allo stanziamento complessivo, a regime, del Reddito di inclusione…
Fonte: Gian Antonio Stella, Il Corriere della Sera, 04/05/2018